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Recensione Outcast: Second Contact

di: Federico Lelli

La storia dietro la serie di Outcast è abbastanza complessa, vediamo prima di tutto di fare ordine. Outcast nasce come gioco per PC nel lontano 1999 dalle mani dei belgi Appeal e riceve anche un moderato riscontro da parte della critica, nel 2001 si pensa quindi ad un sequel che però non vedrà mai la luce per bancarotta della compagnia.
Nel 2010 il gioco viene distribuito nuovamente tramite GOG e nel 2014, dopo la riacquisizione del marchio da parte degli sviluppatori originali, il gioco esce nuovamente in un remake ricompilato dalla versione originale in HD e chiamato Outcast 1.1, dopo aver fallito la campagna Kickstarter che avrebbe dovuto finanziarlo.
Arriviamo finalmente al 2017 dove l’ennesimo remake sempre sviluppato da Appeal, questa volta chiamato Outcast: Second Contact, si affaccia sul mercato per PC, Playstation 4 e Xbox One.

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Pdor, figlio di Kmer, della tribù di Istar

È il 2007, un futuro così lontano che per noi è già passato, il solito governo americano invia una sonda in un mondo parallelo e questa sonda viene distrutta da una razza senziente dall’altro lato causando un’anomalia energetica con conseguente buco nero che rischia di annientare la terra. Qui entra in gioco il nostro eroe con la battuta sempre pronta, il navy seals Cutter Slade, che, insieme ai suoi compagni, viene mandato a riparare la sonda, fermare l’espansione del buco nero e salvare così il mondo. Dopo questo “filmato introduttivo” (praticamente un powerpoint con immagini statiche) ci ritroviamo catapultati su Adelpha dove, per un caso sfortunato, abbiamo perso i nostri colleghi.

Vi teniamo volutamente all’oscuro del resto della storia perché il gioco stesso tende a dipanarsi molto tardi, preferisce invece piazzare con molta calma le basi del proprio universo narrativo tramite le conversazioni che avremo con i suoi abitanti che ci riveleranno presto che, per qualche strana profezia, la nostra figura è vista da tutti come quella dell’ulukai, il messia, e che per qualche motivo saremo portati a salvare Adelpha dal malvagio tiranno Fae Rhan raccogliendo i Mon dispersi.

Tutto chiaro? È presto evidente che la narrazione ci nasconde molte cose per darci veramente l’impressione di essere davanti all’ignoto e farci sentire spaesati come il protagonista. A rafforzare il concetto c’è la conoscenza della razza aliena che popola Adelpha, i Talon, che si porta dietro tutta una lunga serie di parole e neologismi che all’inizio causa una sensazione decisamente straniante e che richiede addirittura un vocabolario interno al gioco per tenere traccia di tutte le cose che ci vengono nominate.

Il titolo si vanta di essere uno tra i primi open world, promessa che effettivamente rispetta lasciandoci la libertà di muoverci tra i vari mondi una volta finito il tutorial iniziale che ci illustra come saltare, nuotare, sparare e procedere furtivamente. La struttura è abbastanza inusuale: pur controllando il nostro eroe dalle spalle in terza persona il gioco si focalizza molto di più sui dialoghi (con una pratica ruota per selezionare gli argomenti di cui parlare) e sulle quest rispetto alla parte action, il risultato è uno strano ibrido tra un’avventura grafica e un gioco esplorativo.

Sbagliare è umano…

Il piano è quello di indebolire l’esercito di Fae Rhan agendo in ogni zona differente in modo da conquistare il favore della popolazione, perché ogni provincia beneficia i soldati in qualche modo che dovremo boicottare: fermando la produzione di cibo, le estrazioni minerarie necessarie per le armi, le paghe dei soldati e così via risaliremo alla filiera del potere e potremo affrontare il boss finale.

Dal punto di vista grafico Outcast: Second Contact migliora sensibilmente quello che abbiamo visto nei precedenti capitoli, rendendo senza ombra di dubbio la versione attuale quella preferibile tra le tante. Un salto che però era abbastanza facile da fare vista la scarsa qualità della versione 1.1, che sembrava già antiquata nel 2010, e che si ferma comunque ad una generazione passata. Peggio ancora il gameplay e il concetto di gioco che rimangono praticamente invariati dal 1999 e che mostrano la propria età in quasi tutte le circostanze.

La parte action è sicuramente la più dimenticabile per una somma di vari fattori che comprendono: i movimenti impacciati del protagonista, il puntamento poco preciso, la IA quasi nulla dei nemici e la tendenza degli stessi ad essere spugne per i proiettili. Gli scontri non sono mai necessariamente difficili e, grazie alla deficienza artificiale, neanche i grandi numeri di nemici ci spaventano, in ogni caso non usciamo quasi mai soddisfatti dallo scontro.

Relativamente alle quest e alla parte di avventura grafica gli ingredienti ci sono tutti, purtroppo anche qui troviamo diversi difetti figli del passato mai risolti. Il primo problema è la quantità di informazioni da gestire: spesso la soluzione ad una delle quest è nascosta in un discorso che abbiamo fatto, o dobbiamo ancora fare, con uno specifico personaggio, c’è un piccolo log degli obiettivi che a volte però non basta. Le stessa fase esplorativa è, per scelta, molto vaga: con le indicazioni degli NPC che spesso si limitano ad un “vai a sud est da qui” che ci faranno vagare senza meta. La struttura open world presenta anche il problema opposto: quando avremo alcuni obiettivi sbloccati prima ancora di aver conosciuto il problema solo per essere capitati per caso in un posto prima del previsto.

Nonostante tutto non ce la sentiamo di bocciare Outcast: Second Contact, perché, pure se presentata in maniera abbastanza confusa, offre una trama immersiva con un lore estremamente approfondito e dei personaggi che non mancano di farci fare due risate, con il protagonista su tutti sempre pronto alla risposta sarcastica. Non è un caso che sia trattato ancora come un piccolo cult in certi ambienti.

…perseverare è diabolico

Outcast: Second Contact è il remake di un titolo del 1999 che di aggiornato al presente ha ben poco: con un gameplay praticamente invariato e grafica della scorsa generazione a voler essere gentili. L’ennesimo remake poteva essere l’occasione per rivedere alcuni dei difetti intrinseci nella struttura ma, a quanto pare, non è mai stato questo l’obiettivo di Appeal, che probabilmente sta già pensando ad un altro remake in ottica VR o con la realtà aumentata, giusto per capitalizzare ancora un po’ sullo stesso prodotto.
È un gioco che per le prime ore probabilmente odierete per quanto è anacronistico e invecchiato male, io stesso ci ho messo parecchio prima che scattasse qualcosa, e quello che è scattato al massimo è stima, sicuramente non amore. Non è però un’esperienza completamente negativa e, in alcuni casi, potrebbe addirittura piacervi.