Recensioni

Blair Witch

di: Simone Cantini

Se penso che sono passati 20 anni un po’ mi prende male, perché ero un giovine studente universitario che, complice quella campagna di marketing mai vista prima, si decise ad andare al cinema assieme ai suoi compagni di avventura. In fondo quel claim che recitava l’oramai abusato “più spaventoso dell’esorcista”, non poteva certo lasciare indifferenti, soprattutto se abbinato a quel subdolo vociare che sembrava voler far sconfinare nel brutalmente reale quelle vicende che sarebbero apparse sul grande schermo. Eppure, nonostante tutto quell’hype, non nego di essere rimasto profondamente deluso da Blair Witch Project, a dispetto del clamore che fu in grado di suscitare nel tempo, finendo quasi per rimuoverlo dal mio curriculum cinefilo, almeno fino all’annuncio del nuovo videogame, Blair Witch, ad opera dei polacchi di Bloober Team.

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La gang del bosco

A scanso di eventuali equivoci, ci tengo a dire subito come l’aver visto la pellicola omonima sia decisamente superfluo, dato che i riferimenti al grande schermo sono davvero marginali in questo Blair Witch, pertanto anche se si è digiuni del mockumentary ci si può approcciare al titolo Bloober Team senza timore di ritrovarsi spaesati. La vicenda narrata nel gioco, difatti, è completamente scollegata dalla produzione del 1999, e ci vedrà calati nei panni di Ellis, un ex poliziotto dal passato decisamente tormentato, che deciderà di unirsi alla squadra di ricerca incaricata di ritrovare Peter, un bambino misteriosamente scomparso all’interno della famigerata foresta di Burkittsville. Il nostro eroe non sarà fortunatamente solo, dato che potrà contare sulla compagnia del fido Bullet, un pastore tedesco che si rivelerà di fondamentale aiuto nello sviluppo dell’avventura, oltre che un vero e proprio perno del gameplay. Ellis, difatti, potrà in qualunque momento impartire dei semplici ordini al cane, siano essi la richiesta di seguire una traccia, stare vicino al protagonista, oppure coccole o rimproveri. E sarà proprio il modo in cui ci comporteremo che andrà ad avere un ruolo importante nella costruzione e nell’evoluzione del rapporto tra noi e Bullet, elemento che potrebbe portare il nostro peloso amico ad essere più o meno di aiuto durante le circa 5 ore necessarie ad arrivare ai titoli di coda. La durata non è certo elevatissima, ma per lo meno è mitigata da una storia decisamente accattivante e ben orchestrata, a cui si aggiungono dei finali multipli, utili per aumentare la longevità generale: questi ultimi saranno influenzati dal nostro comportamento, anche se ad eccezione di un paio di situazioni decisamente plateali, le sfumature in grado di indirizzare l’epilogo sui vari binari saranno decisamente più sottili. Per il resto, trattandosi comunque di un walking simulator, le vicende scorreranno via senza troppo problemi, nonostante la presenza di alcuni semplici enigmi ambientali ed una manciata di combattimenti, anche se questi rappresentano il punto più debole della produzione: mutuati in parte da quanto visto in Alan Wake, ci vedranno combattere contro entità evanescenti, che potremo sconfiggere semplicemente puntando contro la nostra torcia. In questi casi sarà utile Bullet, che ringhiando ed abbaiando ci potrà indicare sommariamente la direzione da cui arriveranno le minacce. Il sistema è molto semplice e schematico, ma aggiunge veramente pochissimo al tutto, complice anche l’assenza di game over (se verremo sopraffatti ripartiremo dal punto in cui siamo arrivati).

Labirinto interiore

Più interessante l’ultima sezione dell’avventura, in cui le minacce dovranno essere evitate, sfruttando quello che uno degli elementi più interessanti di Blair Witch, ovvero la videocamera che recupereremo dopo pochi minuti di gioco. Nelle fasi stealth che ci accompagneranno al finale, questa servirà come visore per seguire delle tracce invisibili e, contemporaneamente, evitare le minacce nascoste nell’ombra. Il suo impiego principale, però, sarà legato alla visione di particolari cassette che, oltre a fornirci indizi su ciò che è avvenuto nella foresta, ci consentiranno di manipolare la realtà, così da uniformarla a quanto registrato e, magari, far comparire degli oggetti utili, oppure sbloccare una porta sprangata. Oltre a ciò, il gameplay sarà fortemente improntato sull’esplorazione della foresta, che rappresenta il vero protagonista della produzione Bloober Team, soprattutto per il modo subdolo in cui è costruita che, in più di un’occasione, non può che ricordare la sadica ricorsività di quel P.T. che tanto avrebbe ancora oggi da insegnare. Simile ad un’entità senziente, la selva di Burkittsville muterà costantemente sotto i nostri occhi, facendoci spesso girare in cerchio e stravolgendo ad ogni passo la sua conformazione, in modo tale da disorientare il giocatore, ma anche da spingerlo a compiere sempre il percorso utile al proseguo dell’avventura. Si tratta di uno stratagemma che ho apprezzato in modo particolare, un piccolo trucco in grado di restituire l’illusione di un ambiente molto più grande del corridoio che, per la maggior parte del tempo, ci troveremo ad attraversare. Peccato per come il tutto si dilunghi un po’ troppo nell’ultimissima porzione di giocato, in cui il riciclo di questo espediente diviene sin troppo ridondante e a tratti stucchevole, soprattutto se consideriamo che avviene in un momento in cui le fila del racconto sono oramai tutte quasi ordinatamente tirate. Ma sarebbe un peccato condannare Blair Witch per questo scivolone, dato che l’atmosfera che il team è stato in grado di confezionare è veramente eccellente, il tutto grazie ad una serie di chicche che riescono a rendere estremamente tangibile il mondo in cui Ellis si trova a doversi confrontare con il proprio passato. A svettare su tutti, per quanto a tratti fastidioso per il suo continuo abbaiare, è proprio il fido Bullet, un animale digitale credibile e realizzato con estrema cura, l’unica ancora di salvezza per il nostro Ellis, che ha in lui il solo punto di contatto con la lucidità che sembra abbandonarlo ad ogni passo. E poi ci sono un walkie talkie, dichiarato omaggio a Firewatch, ed un cellulare che finiscono per dare l’illusione di non essere davvero soli in questo viaggio, grazie a conversazioni in grado di tracciare in maniera intelligente il background del nostro protagonista, ma che non si risparmiano il lusso di schernire la sua psiche in maniera brutale. Ed ecco allora che la storia della strega di Blair finisce quasi per passare in secondo piano, lasciando all’orrore che si cela dentro ad Ellis il centro della scena, al punto che non sarebbe stato poi troppo fuori luogo finire per sbucare sulle rive del lago Toluca, solo per poi venire inghiottiti dalle contorte strade di una Silent Hill che ci manca come non mai. Bloober Team si è quindi dimostrata ancora una volta a proprio agio con l’horror sussurrato, rimanendo fedele al proprio pedigree ed ai fan dei propri lavori, ma anche sin troppo aderente ad una serie di imperfezioni tecniche che, magari con un po’ di tempo in più, avrebbero potuto essere agilmente smussate: al netto di filmati realizzati in maniera eccellente e di uno stile azzeccatissimo, la scena soffre di una fluidità non impeccabile, soprattutto quando la tenue luce del giorno si insinua tra i rami della foresta, ma riesce comunque a riprendersi alla grande non appena indossiamo un paio di cuffie, grazie ad un audio strepitoso.

I ragazzi di Bloober Team proseguono imperterriti lungo il percorso che hanno dimostrato di conoscere molto bene, restituendoci un horror ben costruito e forte di un’atmosfera eccellente. Blair Witch, al netto di qualche intuizione, non fa nulla per nascondere la propria genia, incasellandosi a dovere più all’interno dei walking simulator che non in quello delle esperienze del terrore più giocose. Al netto di un paio di scivoloni (combattimenti e tecnica), il lavoro del team polacco saprà appassionare chi avrà la pazienza di sorvolare su di un gameplay non troppo stratificato, ma che riesce a sopperire a questa smania da spippolamento selvaggio con un racconto che sceglie solo di sfiorare la mitologia dell’opera da cui prende il nome, preferendo mettere in piedi una storia in cui l’orrore è più piscologico che tangibile.