Bonus Stage

Un futuro senza “Tripla A”?

di: Daniele "SteelTurtle" Mancuso

Una delle implicazioni principali della Teoria Darwiniana dell’evoluzione delle specie, è che il momento più alto dello sviluppo di una qualunque classe animale è proprio la sua estinzione. Incapace di adattarsi ulteriormente all’ecosistema circostante, una specie si estingue generando un cambiamento nella catena alimentare e lasciando spazio a creature dalle caratteristiche incidentalmente più adatte alla sopravvivenza.

Un po’ come è successo ai poveri dinosauri. Un po’ come sta succedendo ai videogiochi di categoria cosiddetta “Tripla A”.
Partiamo da una premessa: molti tra i videogamer frequentatori abituali di siti e forum di settore, amano pensare a se stessi come degli “hardcore gamers” i quali trovano un naturale sbocco della propria passione per i videogiochi proprio in quei prodotti realizzati con budget altissimi e che si lasciano apprezzare, tra le altre cose, proprio per l’enorme valore aggiunto artistico derivante dal dispendio di milioni e milioni di euro necessari alla loro produzione.

Benché personalmente i miei gusti non combacino così spesso con titoli costati come mezza manovra economica del governo italiano, ammetto che se un giorno gli “AAA Games” sparissero dalla faccia della Terra io sarei il primo ad esserne molto contrariato; non affatto perché ritenga che quelli siano gli unici prodotti che valga la pena giocare, bensì perché sono conscio del fatto che i videogames su cui lavorano team di centinaia di artisti e sviluppatori spesso danno quegli eccellenti frutti che dimostrano quanto il medium videoludico possa ormai competere ad armi pari in termini di impatto emotivo e potenziale di intrattenimento con i più blasonati film di Hollywood. Anzi, tenuto conto di certe schifezze che spesso escono dagli studi di Hollywood, a volte viene da pensare che certi videogiochi forse siano già riusciti nel sorpasso…
Il problema però, è che il modello di sviluppo che foraggia la produzione di opere titaniche, create in più anni e per mezzo di enorme dispendio di manodopera non è più sostenibile. Poteva magari esserlo fino approssimativamente al 2007-2008, quando l’industria videoludica viaggiava a ritmi di crescita del 20% dei profitti su base annua e la base di utenza delle console sia casalinghe che portatili sembrava potersi estendere all’infinito. Ma quel tempo è trascorso.

Il modello degli AAA Games è figlio di un sistema dalle fondamenta fragili, un sistema basato sulla illusoria certezza che l’unico modo per soddisfare le esigenze dei videogiocatori sia quello di offrire loro giocattoli costosi e super tecnologici, dotati mondi iper-realistici, colonne sonore orchestrali, intelligenze artificiali semi-umane e grafiche maniacalmente rifinite ed in altissima risoluzione. E quel che è peggio, è un modello che ritiene che tali giocattoli debbano essere sfornati con ritmi cadenzati, sotto forma dell’ennesimo sequel del sequel del sequel e in base al calcolo arbitrario e rischiosissimo che il numero di copie vendute dai prodotti in questione sia sufficiente per lo meno a ripagare i costi di produzione.

Il mercato videoludico del 2014 è drammaticamente differente da quello di qualche anno fa. La crisi economica mondiale ha costretto i consumatori a spendere meno soldi e sempre per meno giochi, e l’impressionante sequela di game studios di proprietà delle grandi software house che hanno chiuso i battenti o che sono stati accorpati nell’ottica della “razionalizzazione di spesa” durante l’ultima generazione industriale non ha precedenti.
In tutto questo, l’unica strategia che le software house e i principali publisher sembrano perseguire al momento è quella di scaricare sull’utente finale i costi sempre crescenti necessari alla realizzazione degli AAA Games.

Dal punto di vista formale si tratterebbe di semplice matematica e il problema non sta certo in questo: se creare un gioco costa tantissimo, da qualche parte le spese vanno recuperate e del profitto va generato per finanziare i lavori successivi. La questione semmai è capire fino a che punto un videogiocatore sia in grado o abbia voglia di pagare oggi più di 50-60 euro per comprare dei videogiochi che oltretutto poi andranno ulteriormente foraggiati attraverso l’acquisto di Downloadable Contents, i quali vengono preventivamente concepiti a tavolino col solo scopo di aumentare la potenziale monetizzazione del prodotto e il volume di profitti da esso generati.
Se le aziende produttrici di videogames multimilionari ritengono che la soluzione al problema della stagnazione del mercato sia continuare a sperare che i consumi reggano in maniera sufficiente per permettere loro di “tirare a campare”, forse non stanno davvero pensando al loro futuro, né alla salute della game industry più in generale.

In una realtà come quella attuale, dove centinaia di milioni di nuovi videogiocatori in ogni angolo del mondo utilizzano ormai le proprie console di concerto ai propri cellulari o tablet per poter esercitare il loro hobby, quale è lo spazio rimasto per richiedere ad un consumatore l’esborso di decine e decine di euro per l’acquisto di un singolo gioco?

Qualche mese fa, Yosuke Matsuda, il nuovo CEO di Square Enix aveva esplicitamente indicato che la propria compagnia – il terzo publisher giapponese per volume d’affari e uno dei primi dieci su scala mondiale – necessita al più presto un cambiamento del proprio modello di business in relazione all’offerta videoludica, per far fronte a dei bilanci finanziari pesantemente in passivo. La nuova strategia di Square-Enix passerebbe sia dall’aumento del numero totale di prodotti pubblicati sul più ampio numero di piattaforme possibili, sia dalla diminuzione dei costi e delle dimensioni progettuali complessive di ogni singolo gioco in lavorazione.

Se da un lato questa somiglia alla certezza che in futuro Square-Enix produrrà videogiochi similmente ad una catena di montaggio che lavori su prodotti di medio taglio e dalle fattezze identiche gli uni agli altri, c’è da chiedersi che tipo di alternativa abbia (o non abbia) un qualunque altro gigantesco publisher che improvvisamente scopra l’insostenibilità del modello di dispendio continuato di decine di milioni di euro/dollari/yen per la creazione di costosissimi Action GamesRPG e MMORPG, i cui pur alti ritorni economici non giustificano per forza di cose i costi.
La tendenza produttiva degli AAA Games è sotto gli occhi di tutti. I primi due publisher su scala planetaria, Activision-Blizzard ed Electronic Arts, concentrano da diversi anni a questa parte la stragrande maggioranza dei propri sforzi economici su un pugno di brand (Call of Duty, Battlefield, FIFA, Spyro, Need for Speed) alimentandoli costantemente con episodi annuali che assicurano loro entrate consistenti e relativamente costanti nel tempo (seppure anche tramite l’introduzione di innumerevoli DLC, come già detto). Lo stesso percorso che ha imboccato anche la compagnia franco-canadese Ubisoft con il titanico progetto Assassin’s Creed e con la serie Splinter Cell, che di fatto rappresentano la priorità finanziaria assoluta del publisher.

Se è vero che i costi per la produzione di un videogioco di classe “Tripla A” continuano ad aumentare nel tempo, e se è altrettanto vero ciò che afferma in un’intervista Eric Boltjes –Lead Designer dei Guerrilla Games, autori della serie Killzone-, cioè che produrre un colossal videoludico sulle nuove console PS4 e Xbox One può arrivare ad essere fino a quattro volte più oneroso di quanto non sia oggi, appare ancora più chiaro che il sistema sia prossimo ad una frattura senza eguali.

E’ realistico pensare che la “rivoluzione Indie” degli ultimi 4 o 5 anni e che vede sempre più gruppi di sviluppatori (anche molto famosi) staccarsi dai cordoni delle grandisoftware house per mettersi in proprio come Indie Developers, abbia in effetti più a che fare con la comprensione che la game industry dei giochi da 50 milioni di dollari di costo medio sia prossima al collasso, che non dalla teoria che improvvisamente una fetta sempre crescente di videogiocatori preferisca cimentarsi con videogiochi tecnicamente e artisticamente molto più semplici ed economici dei tipici “blockbusters” per console.

L’indie gaming non è ovviamente di per sé la risposta o la soluzione dell’ormai evidente stato di crisi dell’industria “ufficiale”, ma l’espansione di tale fenomeno è il modo migliore per misurare quanto il modello di produzione degli AAA Games necessiti al più presto di una cura da cavallo, di nuovi modelli di business e di prezzo e, mi sento di aggiungere, di maggiore onestà intellettuale da parte di quelle software house che nel peggiore dei casi considerano ancora oggi il consumatore finale solo come una vacca da mungere fino all’ultima goccia di latte.