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Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco Netflix

di: Simone Cantini

Di solito evito di commentare in prima persona serie televisive e quanto altro esuli dalle produzioni videoludiche, un po’ perché non mi ritengo all’altezza del compito, a dispetto degli anni trascorsi davanti al fu tubo catodico, un po’ perché almeno ultimamente il mio schermo lo sfrutto unicamente per i videogame. Complice il caldo degli ultimi giorni, però, capace di annullare ogni voglia di movimento, fosse anche quello delle dita sul pad, ho avuto l’ardire di guardare I Cavalieri dello Zodiaco, o meglio il tanto discusso remake in computer grafica da pochissimo approdato su Netflix. Ebbene, a dispetto di quanto detto in apertura, non ho potuto esimermi dal buttare subito giù queste righe, fosse solo per salvare quante più anime innocenti possibili…

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Furono I Cavalieri dello Zodiaco

Anche se sono da sempre stato un fan sfegatato di Kenshiro, non nego che in quegli anni ’80, in cui ogni canale privato rappresentata una sfrenata orgia a base di anime per noi pischelli del tempo, finii anche io per appassionarmi a I Cavalieri dello Zodiaco, complice anche la presenza nei negozi di quei costosi modellini che avevano “tutti le armature di metallo” (cit.). Ai tempi la parola manga non sapevamo neppure dove stesse di casa, e al massimo poteva rappresentare una triviale storpiatura in salsa finto africana del nostro idioma, ma di cartoni ne sapevamo assai, al punto che non era difficile intuire che quello che stava passando sullo schermo fosse roba forte. Non come il pugno di Hokuto, ma siamo lì. Insomma, difficile resistere a quell’epica a tratti inutilmente pomposa (però made in Italy per i motivi che tutti sappiamo), a quelle lotte così interminabili da far apparire una partita di Holly e Benji come un fugace battito di ciglia. E poi c’erano quelle armature della Madonna, i colpi assurdi, le botte da orbi e personaggi stereotipati talmente bene che era difficile non innamorarsene. Ed i Fulmini di Pegasus si incrociavano con le Polveri di Diamanti, mentre Colpi Segreti del Drago Nascente osservavano di fianco ad Ali della Fenice. E no, le Catene di Andromeda stava male nominarle, visto l’ambiguo cavaliere a cui appartenevano, che in quegli anni felici erano anche piccolezze simili a segnare il tuo status sociale. Insomma, un mix in perfetto stile shonen che fu capace di fare strage di cuori, e di sopravvivere ancora oggi grazie a spin-off più o meno riusciti, videogame di dubbio gusto ed una quantità spropositata di action figure, capaci di depredare in modi sempre più rocamboleschi il mio conto in banca. Arriva, però, il momento in cui è ora di dire basta a tutto questo bieco sfruttamento, urlare compatti “altolà al sudore”, pure se poco c’entra con il discorso, e fermare quegli scempi sublimati ne I Cavalieri dello Zodiaco targati Netflix. Che no, non sono da bocciare per il risibile comparto tecnico o per la volontà di rendere davvero il cavaliere di Andromeda una ragazza, ma solo per aver stravolto, irriso, danneggiato e sbeffeggiato l’opera di Masami Kurumada in ogni modo possibile.

Siesta di Pegasus!

Diciamo subito che ridurre a sole 12 puntate il primo arco narrativo del manga/anime era davvero ostico, pertanto era lecito attendersi uno snellimento di dinamiche ed archi narrativi, ma quando ti accorgi che la Guerra Galattica, nucleo portante della parte iniziale della serie, viene ridotto ad un paio di anonime scazzottate all’interno di un triste capannone interrato, capisci subito che qualcosa non è andato per il verso giusto. Ed è altrettanto incomprensibile, vista la complessità di base del soggetto originale, la scelta di mettere in scena la figura di Gurad, ex amico di Alman di Thule che, in seguito al ritrovamento di Isabel/Atena e di un Micene morente, si intestardisce nel voler mettere in piedi un esercito personale con il quale sconfiggere dei e cavalieri. Ne sentivamo il bisogno? Ma certo che no. L’unica cosa buona fatta da Gurad è stata quella di giustificare in modo finalmente coerente la figura dei Cavalieri Neri, adesso identificati come i pretendenti alle varie armature di bronzo che finirono sconfitti dai rispettivi possessori. Ecco, diciamo subito che le cose buone fatte dalla produzione nippo-americana si esauriscono tutte qua. Le 6 puntate attualmente disponibili (altrettante sono in arrivo, purtroppo) si portano, quindi, in dote una sceneggiatura traballante e sconclusionata, caratterizzata da un ritmo completamente sballato in cui l’assurdo dialogo tra Seiya ed un tombino robot (giuro!) finisce per occupare più spazio di gran parte dei combattimenti. Ed in un anime a base di botte e cavalieri, ma pensa un po’, questa discrepanza si nota parecchio. Lo script, inoltre, ha l’indubbio pregio di appiattire ancor di più i personaggi che tutti conosciamo, di per sé stereotipati all’inverosimile già in origine, ma che adesso finiscono per sembrare ancor più monodimensionali e privi di qualunque appeal. E se in nome del politically correct e della volontà di voler attirare anche un pubblico femminile, si finisce per smussare un personaggio complesso e controverso come Shun/Andromeda, come già detto rendendolo a tutti gli effetti una donna, ecco che ogni minimo sprazzo di dignità finisce per scomparire come neve al sole, soprattutto se confrontiamo questa scelta con il percorso che il personaggio principale è chiamato a compiere nell’opera originale. Tutto risulta, insomma, appiattito all’inverosimile, oltre che spogliato della drammaticità che Kurumada aveva riversato nella sua opera, al punto che anche la violenza degli allenamenti e degli scontri è stata edulcorata oltre misura (neppure una goccia di sangue, che diamine!), così da far apparire gli aspiranti Cavalieri di Bronzo come scout in gita premio. Però abbiamo un Seiya con il sombrero che vaga nel deserto, vuoi mettere lo scambio?

Voci stonate

Se non fossero bastati gli scempi compiuti con Robotech e le apparizioni a stelle e strisce di Godzilla, I Cavalieri dello Zodiaco dimostrano come l’incontro tra penne nipponiche e menti americane non riuscirà mai a partorire un qualcosa di minimamente decente e coerente con l’opera originale. Vero è, però, che stavolta ci abbiamo messo del nostro per peggiorare la situazione, sovvertendo quella felice intuizione in termini di adattamento che contribuì a rendere immortale l’apparizione nostrana dell’anime. L’edizione italiana, difatti, stavolta non ha finito per rappresentare un vero e proprio valore aggiunto, anzi, con la sua volontà di scimmiottare in modo sfacciato quanto fatto negli anni ’80, è riuscita solo ad inspessire quella patina di ridicolaggine che ho fino ad ora sottolineato: scegliere di sfruttare i doppiatori dell’epoca deve essere sembrata un’idea geniale, peccato che un Ivo de Palma oggi non più ventenne mal si sposi con un Seiya poco più che adolescente, così come lo stesso si può dire per gran parte delle voci storiche. Rivedibile anche la scelta di rimanere con i piedi in due scarpe per quanto riguarda l’adattamento dei nomi, probabilmente figlio dell’edizione statunitense, che affianca un nipponicamente corretto Seiya a colpi e nomi legati all’edizione dei tempi che furono, ma anche ad altre soluzioni inventate di sana pianta (che senso ha chiamare Ikki/Phoenix Nero?). Vabé, però almeno la sigla iniziale è Pegasus Fantasy, vero? L’ho suonata per anni con un mio vecchio gruppo, adoro quel pezzo, così come il testo e la melodia originale, ma sentirla adattata in inglese è stato davvero troppo: avrò gli incubi per anni, lo so. Alla fine di tutto, cosa impensabile se torniamo all’impatto che ebbe il primo trailer, a sfigurare meno del previsto ci ha pensato il comparto tecnico che, seppur non certo neppure degno di allacciare le scarpe all’animazione televisiva che fu, ha finito per alternare cose buone (design delle armature ed effettistica) ad altre sicuramente rivedibili (dinamica delle lotte ed animazioni in generale). Non siamo dalle parti di “il mio falegname con 30 mila lire me la fa meglio”, ma poco ci manca. Almeno qua le unghie ci sono però.

No, e con questo avrei anche detto troppo. Netflix ci ha propinato una versione moderna de I Cavalieri dello Zodiaco quanto mai superflua, oltre che a tratti offensiva, incapace di accontentare tanto i vecchi quanto i nuovi fan. I primi vedranno violentata una delle serie più popolari di sempre, che ha finito per essere privata di tutte le caratteristiche che furono in grado di renderla immortale, edulcorata e spogliata di ogni benché minima ragione di esistere. I secondi, complice una sceneggiatura piatta e priva di mordente, a cui si affiancano dei personaggi che paiono il peggior riassunto di sempre, avranno ben pochi motivi per vedere nei Santi di Bronzo quei nuovi eroi capaci di far loro spendere denaro sonante in costoso merchandising. Comunque un pregio la coproduzione nippo-americana (Toei mia, in cosa ti sei imbarcata?!) lo ha: per una volta sono felice di essere un allegro quarantenne, che almeno ho rinchiuso nel cuore il ricordo della prima messa in onda dei veri Cavalieri dello Zodiaco.