Approfondimento

20 anni di Silent Hill

di: Simone Cantini

L’orrore è davvero di casa nelle nostre console, oltre che uno dei generi che l’utenza videoludica sembra apprezzare più di ogni altro, come dimostra l’incredibile successo riscosso proprio negli ultimi giorni da Resident Evil 2 Remake. Erano 21 anni che il titolo Capcom si faceva desiderare, in forma ovviamente riveduta e corretta, ma non è certo il solo a meritarsi un lifting digitale di tutto rispetto. Solo pochissime ore fa, difatti, un’altra importantissima serie horror si apprestava a festeggiare il ventennale del suo debutto, una saga che, dopo il meritatissimo successo iniziale, ha finito per il barcamenarsi più o meno felicemente tra i flutti, non certo guidata sapientemente da capitan Konami. Inutile dire come il brand in questione risponda al nome di Silent Hill.

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Nuovo orrore

Erano gli anni in cui qualunque possessore di PS1 era terrorizzato dagli esperimenti genetici della Umbrella, un periodo felice in cui la paura aveva le letali fattezze di Tyrant, Licker e compagnia squartante, al punto che era davvero difficile pensare ad una nuova, terrificante incarnazione dell’orrore. Eppure Konami, la vera Konami di una volta, non quella macchina sforna pachinko che tutti quanti amiamo dileggiare oggi, sembrava disposta a non lasciare campo libero a Capcom e si dichiarò pronta a lanciare il suo personalissimo guanto di sfida. Fu sufficiente raggruppare un gruppo di persone insoddisfatte, sull’orlo di salutare definitivamente la compagnia, lasciar loro carta bianca e far sì che l’estro del geniale Keiichiro Toyama facesse il resto. La sfida, comunque la si vedesse, non era certo semplice, visto che il rischio di un ennesimo flop era comunque dietro l’angolo, ma i ragazzi del Team Silent riuscirono ugualmente a tirar fuori il proverbiale coniglio dal cilindro, dando vita ad un titolo memorabile, oltre che sorretto da delle intuizioni, alcune figlie dell’hardware dell’epoca, che contribuirono a dare vita alla leggenda della Collina Silente. La prima, e quanto mai intelligente, fu quella di non giocare la partita sullo stesso campo di Resident Evil, decidendo di narrare l’orrore da una prospettiva diametralmente opposta a quella della saga Capcom. Questa, sin da sempre legata alle atmosfere becere e truculente dei peggiori b-movie, era caratterizzata da un orrore esplicito e viscerale, in cui il manifesto e la concretezza delle aberrazioni che si annidavano in Villa Spencer e Raccoon City erano presenze letali ed ingombranti. Spostarsi sul medesimo piano avrebbe, pertanto, esposto il futuro gioco ad un confronto impari contro quella che era una saga estremamente popolare, perciò Toyama vide bene di proporre un setting più cerebrale e rarefatto, in cui era l’ignoto a rappresentare la minaccia più stringente. I demoni interiori del protagonista di turno, resi per certi versi tangibili dalla città maledetta, avrebbero rappresentato la minaccia più stringente, subdola e inafferrabile, le cui fattezze sarebbero state rese in più di un caso appena percettibili dalla fitta nebbia che ammantava le stradine di Silent Hill: proprio questo impalpabile agente atmosferico a rappresentare un altro dei punti di forza della serie che, da involontario espediente volto a mascherare i caricamenti dell’ambiente, finì ben presto per divenire uno dei marchi di fabbrica della serie, quasi una sorta di altro protagonista del racconto.

Storie malate

Ed anche la scrittura finirà per avere un ruolo di spicco all’interno dell’economia generale della produzione, forte di una sceneggiatura intima e malata, in cui sacro, profano e demoni interiori si intrecceranno per dare vita ad un racconto oscuro e malato, a cui si affiancherà un cast di personaggi ambigui, ognuno con la propria brava dose di scheletri nell’armadio. Aggirarsi per Silent Hill diverrà, quindi, una sorta di viaggio infernale, in cui la redenzione e la salvezza potrebbero non essere l’epilogo più felice, laddove saranno propri i protagonisti a non essere, sin troppo spesso, gli eroi senza macchia e senza paura che i videogiochi tendono da sempre a darci in pasto con noncuranza: imperfetti, subdoli, egoisti, sono la summa di un teatro umano degli orrori capace di bucare letteralmente lo schermo, così da renderli dannatamente umani e reali. E poi, per quanto sussurrati in più di un frangente, ci sono i demoni che si aggirano per Silent Hill che, nonostante qualche concessione in direzioni già ampiamente sdoganate (capisco l’inferno in terra, ma perché sempre cani?), hanno finito per dare vita ad un bestiario distorto come mai si era visto prima, una vera e propria personificazione dei nostri peccati e delle nostre paure, che hanno finito come nel caso di Pyramid Head, per divenire delle vere e proprie star del franchise. Tutto ha finito per incastrarsi alla perfezione in questo diabolico meccanismo ad orologeria, un quadro in cui ogni minimo tassello, fosse anche il più insignificante, finiva per essere diabolicamente al proprio posto. E marginale non può essere certo definito, se letto in questa ottica, il sontuoso lavoro svolto da Akira Yamaoka, il leggendario compositore della serie, che grazie ad una soundtrack atipica per il genere, fatta di silenzi infiniti e suoni industriali, ha saputo dare una forma sonora alle nostre paure più nascoste, al punto da rendere anche un solare mandolino una sorta di espressione diabolica del maligno.

L’importanza del silenzio

Difficile fallire quando si era in grado di mettere sul piatto un’offerta così stratificata, infatti Silent Hill fu un successo annunciato, in grado di dare vita ad una serie che, grazie al suo secondo episodio, è stata in grado di dare vita ad uno degli horror più affascinanti che abbia mai invaso le nostre macchine da gioco. Arduo ripetere i fasti del dramma di James Sunderland, capace di toccare vette espressive altissime, ma proprio questa sua inarrivabile grandezza ha reso ancora più debordante il netto calo che la serie ha subito dal terzo capitolo in poi. Una volta raggiunto il cielo, difatti, Silent Hill non è riuscito nell’arduo intento di reinventarsi in modo convincente, nonostante i tentativi per certi aspetti lodevoli sperimentati con The Room, episodio che ha visto la produzione della serie abbandonare il suolo nipponico. Certo, l’idea di cercare nuove strade grazie all’apporto di studi occidentali era pregevole, ma nonostante qualche interessante intuizione (Shattered Memories e Origins), l’idea di trovarsi a percorrere sempre le solite strade già battute in passato era davvero troppo marcata. Ecco allora che Konami vide bene di giocare un ultimo, sadico tiro mancino ai fan della cittadina nebbiosa, lasciando sognare l’utenza per mezzo di quel tanto citato P.T. che, per mezzo del suo pezzo da novanta Hideo Kojima, fece sobbalzare i cuori della platea videoludica. Peccato che poi, come tutti sappiamo, le cose non sono andate come sperato, e quel playable teaser ha finito con il rimanere uno dei più grossi rimpianti dell’intrattenimento digitale.

E così Silent Hill compie venti anni, due decenni in cui la sinistra cittadina ha visto accrescere a dismisura il numero dei propri abitanti, solo per poi spopolarsi definitivamente senza possibilità di appello, lasciando quel luogo malato ostaggio della sua nebbia perenne. Sapere che Konami ha stretta tra le proprie grinfie una IP così amata, senza che vi sia la benché minima intenzione di riportala alle proprie origini, è un crimine che mi auguro non possa restare impunito, visto che tutti quanti abbiamo dei peccati, che soltanto un viaggio tra quelle vie ideate dal Team Silent è in grado di lavare via.